Scuola Media di Varzo, Classi 3^ A, 3^ B
Solo nell’ultimo secolo le valli Divedro e Devero hanno visto dei mutamenti di un certo spessore. Tuttavia, come visto nelle pagine precedenti, il territorio venne modificato a partire dal XIII secolo, con la prima massiccia migrazione dei Walser. Essi fondarono numerose colonie in Ossola (Formazza, Salecchio, Agaro, Ausone, Macugnaga, Campello Monti e Ornavasso). La montagna venne a poco a poco colonizzata e comparve una diffusa rete di alpeggi. Con la fine del XIX secolo la situazione però ebbe un profondo mutamento, causato dallo sfruttamento dell’energia idroelettrica e dalla costruzione della galleria ferroviaria del Sempione.
Mestieri tradizionali in Val Divedro
Fino circa all’inizio del XX secolo, le occupazioni principali dei valligiani divedrini erano l’agricoltura e l’allevamento del bestiame. Sui terreni a mezza costa, ora occupati da boschi e prati, vi erano invece campi coltivati a frumento, segale, orzo, miglio, granoturco, fagioli, patate, canapa. Ancora oggi troviamo tratti di muri che servirono come sostegno ai terrazzamenti, oltre che svolgere la funzione di confine tra le proprietà.
La vite era coltivata nei luoghi più esposti al sole: infatti sappiamo che vaste zone di vigneti si trovavano a Coggia, nella fascia tra Alneda e Bertonio, fra Piaggio e il Gagetto e nella zona sud, compresa tra Riceno, Al Treggiolo e Cattagna. Si ricavava un vino piuttosto aspro e di bassa gradazione. Molti erano anche i capi di bestiame, suddivisi in bovini, ovini e caprini e per il loro mantenimento si falciava il fieno tre volte l’anno (da giugno a settembre) fino a metà costa e due volte a quote superiori, dagli 800 ai 1300 metri. Inoltre si portavano i bovini a pascolare, prima alle “montagne” più basse e poi sempre più su, fino alle “alpi” più alte. L’inalpamento avveniva e avviene tuttora ai primi di luglio e dura fino ai primi di settembre, periodo in cui si rifà il percorso alla rovescia, scendendo alle “montagne” più basse, finché, verso la fine di novembre, tutto il bestiame è ritornato al fondovalle. Le capre e le pecore, in primavera, allora come oggi, venivano accompagnate a una certa quota, quindi gli animali cercavano i pascoli migliori, per poi abbassarsi spontaneamente ai primi freddi. Fino al principio del Settecento, come si è detto, i Varzesi vivevano con i prodotti della campagna e con quanto il bestiame poteva loro fornire.
Era certamente una vita austera, con molti sacrifici e, secondo le annate, con molte privazioni. Raccoglievano la resina per la produzione della pece; conciavano il cuoio per le scarpe e i finimenti degli animali da soma; producevano la calcina nelle fornaci (i fürn), le donne filavano e tessevano la canapa dopo averla fatta macerare e averla sfilacciata. Nella valle vi erano molti mulini lungo i riali, per la macina delle segale, del frumento, del granoturco. Molte case avevano il forno per la cottura del pane e parecchi erano i forni pubblici. Vi erano fabbri, maniscalchi, ciabattini, muratori, orologiai, falegnami e molti maestri peltrai, che si adoperavano nella lavorazione dello stagno unito all’argento.
La lavorazione del peltro nella valle fu molto diffusa: si produssero anfore (la stagnoa), piatti, cucchiai, forchette, zuccheriere, scodelle, bacili bassi dal fondo piatto, lucerne ad olio ed altri oggetti di pregevole fattura.
Mestieri tradizionali in Valle Devero
Caratterizzata, come del resto la Val Divedro, da vaste aree improduttive “in relazione con le tormentate relazioni altimetriche” (si veda Piero Landini, La Valle Devero e le sue condizioni demografiche e pastorali, in Bollettino Storico per la Provincia di Novara, anno XXVI, gennaio – giugno 1932), anche la Valle Devero aveva un’economia essenzialmente basata sul settore primario, in particolare sull’allevamento bovino e caprino. Stupisce il notevole interesse manifestato dal comune di Baceno nel settore dell’allevamento dei caprini, stabilendo il numero e l’estensione delle località in cui questi potessero pascolare.
Durante la stagione fredda gli allevatori stazionavano nei centri invernali (si veda ancora il già citato studio del Landini), che si trovava nella zona fino ai 1000 metri di altitudine ed si presentava popolata durante tutto l’anno. Situati verso i bacini più alti (fino ai 1800 metri) erano invece i centri temporanei, abitati dalla primavera all’autunno da contadini – pastori, che si dedicavano al taglio del fieno e alla coltivazione di piccoli appezzamenti: Goglio, Agaro e Crampiolo rientrano in questo insieme di insediamenti.
Sul “gradino” più elevato (oltre i 1800 metri) c’erano poi gli alpi, ovvero il pascolo puro, con costruzioni interamente in pietra e abitate da luglio a settembre: qui il bestiame era curato da appositi capi casata, che si preoccupavano dell’inalpamento e del mantenimento. Da ricordare in questo caso l’alpe Bondolero, l’alpe Pojala, l’alpe Misanco e l’alpe del Piano. Fin dall’età napoleonica fu stabilito che ogni proprietario dei pascoli dovesse dedicarsi alla cura e alla bonifica di una certa superficie di pascolo. Si dovevano quindi mantenere in buono stato le vie d’accesso agli alpi pulendole da rododendri, cespugli, materiale ghiaioso e ciottoloso. Fiorente era la produzione di fontina, ricotta e burro, prodotti che venivano prontamente rivenduti ai negozianti degli abitati di fondovalle, ai quali toccava il compito di recarsi agli alpi per contrattare direttamente con l’allevatore il prezzo di vendita.
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